Si dice che la mitologia racconti vicende che sono comuni a tutto il genere umano e che aiuti a comprenderne i significati. “Destino” è un termine col quale faccio i conti quotidianamente. Platone, che non è nato ieri, parla del destino nel mito di Er, che pone alla fine della Repubblica, opera scritta circa duemilaquattrocento anni fa. In breve: prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un disegno di vita che poi vivremo sulla terra. Sceglie il corpo, i genitori, il luogo, le situazioni di vita adatte all’anima stessa e corrispondenti alle sue necessità. Inoltre, l’anima riceve un compagno – daimon – che la guiderà. Il destino può essere rimandato, negato, perso di vista, ma alla fine verrà fuori, poiché il daimon non ci abbandona e ha il duro compito di aiutare l’anima a realizzarlo. Il daimon si manifesta nei momenti in cui abbiamo paura, in cui non comprendiamo o ci rifiutiamo di fare qualcosa. “Che cosa vuole il mio daimon?”, me lo chiedo spesso. In Italia, la mia vita filava lineare: liceo, università, specialità, ricerca di un lavoro. Tutto sembrava andare in una direzione precisa, conosciuta, familiare. L’amore, il matrimonio, una famiglia, emigrare non erano nei miei progetti ma il daimon, al contrario, la pensava diversamente.
Avevo quindici anni quando per la prima volta ho preso in mano “Il vecchio e il mare”, un libro ostico, che ho iniziato più e più volte. Ci ho riprovato a vent’anni, ero più matura, ricordo di aver superato la metà. Mi rifiutavo di pensare che il maestro Hemingwai non facesse per me. Santiago, il protagonista, è un uomo di mare, ha la pesca nel sangue e quello che da adolescente non potevo comprendere era il suo orgoglio di marinaio fatto di fatica, sacrificio e lunghe attese. A vent’anni – lo sai quando parti e dove vuoi arrivare o almeno credi di saperlo – non sopportavo che l’eroe di Hemingwai affrontasse con pazienza e determinazione il nulla e il mare aperto. Non capivo l’amore per la pesca e la motivazione che lo spingeva ad affrontare questa difficile lotta ad armi impari contro la natura. In base al mito di Er, il mio daimon era al lavoro, poiché quel libro portava in sé il germoglio di quella che sarebbe stata la mia vita, toccandomi nel profondo, e toccando corde che non ero ancora in grado di afferrare. Oggi, a quarant’anni suonati, il mito di Er mi aiuta a capire le resistenze di allora nel terminare il mio libro: il mondo di Santiago, quel suo modo di affrontare la vita e le sfide che propone avrebbero fatto parte del mio destino.
Da più di due anni vivo a Kamala, un tempo terra di grandi pescatori. Soltanto trent’anni fa, la gente viveva di pesca, una pesca non a strascico e quindi industriale, ma caratterizzata dall’uno a uno, ovvero “un pescatore un pesce”. Tranne la pesca del tonno, per cui si utilizzano delle lenze legate a pesciolini in plastica colorati che si fanno correre a motore sul filo dell’acqua, si utilizza il filo – senza la canna da pesca! – che, con un movimento continuo delle braccia, smuove la lenza, e quindi l’esca. Mio marito appartiene a questa tradizione. A descrivere questo mondo io stessa ne rimango affascinata, ma la pesca ha anche un’altra faccia, inquietante e incomprensibile. La partenza è l’unica certezza: chi va in mare può tornare di notte, il giorno dopo, due giorni dopo ed è un dato consolidato, come l’orario della campanella che suona a ricreazione; chi va in mare vi rimane anche con il temporale, il vento e il mare mosso, come quando si va in ufficio; chi va in mare sa bene che va a combattere una lotta ad armi impari contro la natura; chi va in mare sa che può tornare al porto senza pesce. Chi va in mare ha il viso segnato dalle rughe della fatica e ha la luce negli occhi, come Santiago. Mio marito, sebbene non viva di pesca, ha nel sangue il mare, il sole, la pesca. Durante le grandi manifestazioni, da Kamala partono più di venti long tail boat (la tradizionale barca thailandese, simile a una gondola) e al ritorno il porto si trasforma in una vera e propria sagra, dove si pesa il pesce e si fa spesa. Spesso è capitato che mio marito tornasse nel cuore della notte a causa di un forte temporale: “era impossibile tenere la barca, altri sono ancora fuori”, oppure che tornasse a casa con ventiquattro ore “di ritardo”. A stento trattenevo domande quali “non potevi farmi almeno una telefonata?” che suonavano fuori luogo.
Conosco Alee da sei anni e siamo sposati da tre. Sono andata a pescare una volta soltanto, mentre ho perso il conto di quelle in cui lo aspetto quando fuori è già buio. Io non ho ancora capito il perché delle scelte che facciamo, mentre ho ben chiaro che nel mio presente non può mancare la rete wifi e la possibilità di prendere la macchina e tornare a casa nel giro di poco. Ammetto però che ho iniziato ad accettare l’arresa di fronte alla forza del destino che ha necessità di realizzarsi. Perché il nostro destino si compia, il daimon si mette all’opera sin dall’infanzia e non è possibile sbarrargli la strada. Sin dai tempi più antichi, filosofi e poeti hanno cercato un nome per indicare il destino. Per i latini era il genius, per i cristiani l’angelo custode, per gli eschimesi lo spirito, per gli egizi il Ka o Ba, per i greci il daimon.
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