Gen 21

Perché vivo la Thailandia

 

DSCN0653“Vai in Thailandia, è un Paese bellissimo e la vita costa poco!”, così quattro anni fa, a ridosso del Natale, sono partita per la mia vacanza low cost, non consapevole di quanto invece mi sarebbe costata, e non in termini economici! Avevo bisogno di una vacanza fuori dai miei schemi, e dopo un paio di settimane in giro per la Thailandia sono andata nel nord, a Chan Mai, dove ho lasciato la mia valigia in una guesthouse, ho preparato uno zainetto con un asciugamano per il bidet, due paia di mutande, due magliette, il bikini, lo spazzolino da denti e il dentifricio. Per una settimana ho deciso di dire addio al computer, al silkepil, allo scrub, alle creme per il corpo, allo smalto. Volevo andare a piedi, camminare, scalare.

 

DSCN0642Sentivo che mi serviva il contatto con la natura, dove i bisogni non esistono. Così mi sono affidata a una guida locale. Camminavamo per una media di sette ore al giorno, raggiungevamo villaggi sperduti senza acqua corrente né luce dove pescavo e sciabattavo per la giungla selvaggia. Non ho mai fatto più fatica in vita mia: le zanzare, l’umidità e il caldo maledetto non mi davano tregua e non mi dava tregua il fatto di sapere che all’arrivo mancavano ancora quattro ore, tre ore, due, che il giorno dopo sarebbe stato uguale, che mentre rampavo su quei sentieri umidi e

 

DSCN0645scivolosi non potevo pensare e volare via coi pensieri, ma dovevo rimanere lì, con gli occhi puntati su dove mettevo i piedi. E ogni ora raddoppiava, i giorni ma sembravano di 36 ore, la settimana un mese: c’ero solo io, nella giungla selvaggia. E la mia guida, Pond. Senza di lui – giovane thailandese con età anagrafica di ventidue anni, dichiarato alla nascita sei anni dopo poiché i genitori non avevano i mezzi per arrivare all’ufficio nascite – sarei ancora là.

 

 

DSCN0636Ogni volta che gli chiedevo quanto mancasse all’arrivo mi rispondeva ridendosela: “three hours, but for you Debby six hours”, sarà anche per questo che il tempo non sembrava passare mai. Non potrei mai più ripetere un’esperienza simile, sebbene per la prima volta mi sentissi soddisfatta e fiera della strada che avevo percorso con le mie gambe. Mi sentivo piena di energia e svuotata da quei pensieri che complicano la vita di ogni giorno. Ero finalmente pronta a tornare in Italia e riprendere la mia vita e il mio lavoro.

To Be Continued…

Gen 01

Il piccione Paleolone Pallone

IMG_3767Per i miei amici, per i bambini che eravamo:

una storia sull’amicizia e sugli incontri che fanno battere il cuore!

La distanza qualsiasi essa sia non conta, conta solo la vicinanza dell’anima.

Buon Anno!​

Crù crùùù! Ciao, sono Paleolone Pallone: Paleolone il nome e Pallone il cognome, chiamatemi pure Pallone, o Paleolone o PaleolonePallone, c’est à vous la choix, a voi la scelta!

Crù crùùù! Paleolone Pallone – bien sure! – il netturbino della stazione. Volo sui binari, sfreccio tra una carrozza e l’altra, piroetto tra i viaggiatori sino a scendere in picchiata e oplà, con una sterzata d’ali atterro puntando il becco nelle fessure per raccogliere… le bricioline! Lavoro di raffinata precisione, nel quale velocità e prontezza non sono un’eccezione! Oui oui oui, mes amis, per Paleolone Pallone il Piccione, pour Paleolon Pallon le Piccion presto e bene vanno a braccetto insieme!

Una briciolina qua e una briciolina là! Un tocco di becco e una spazzata d’ali e tutte le bricioline finiscono nella mia bisaccia! Via giù in picchiata di là e un salto in alto di qua, il lavoro di Paleolone Pallone è una vera ossessione!

A volte però che fatica farsi accettare! Crù crùùù! Sono proprio quelle volte in cui io, Paleolone Pallone, sono l’ossessione! Giravolta in orizzontale e poi giù roteando soave alla vista di una briciolina. Il mio moto d’ali però, provoca scompiglio tra gli esseri umani: aaaah ah ooooh uuuuuh!!! Via, via, vai viaaaaa! Ma le bricioline sono proprio lì vicino, come faccio? Devo andarmene? Io sono Paleolone Pallone il netturbino della stazione! E chi altri dovrei essere? C’est moi… perché non posso essere me stesso?

Idea! Per riempire la bisaccia sarò più leggero dei fringuelli e più acuto delle aquile! Oui oui, pronto come un gatto in attesa e silenzioso come il passo del serpente! Coglierò le bricioline all’improvviso e di soppiatto! Me ne starò a terra, invisibile e fermo come un camaleonte ad aspettare il momento buono!

Paf paf paf…pas de crù crùùù…alcun crù crùùù! Non devono sentirmi né vedermi, striscerò a terra con il passo del giaguaro: swiss swiss swiss ad afferrare le bricioline ai piedi delle persone! Signore e signori me voilà, rieccomi: Paleolone Pallone il netturbino della stazione in versione swissiolante, swiss swiss!

Ha haaaaaaa yahooooo swiss in scivolata da una parte all’altra del binario e la mia bisaccia è di nuovo piena di bricioline! Mi chiudo a riccio e roteo come una palla: mais bien sur, je suis Le Pallon! Però, che fatica essere quello che non sono…le mie zampe non mi reggono più…e che sete: è l’ora della granita crù crùùù, crù crùùùù! Crù crùùù oh noooo no! Ssst sssssssst zitto Paleolone, ti hanno sentito, fai silenzio, ssssst! Chiudo gli occhi così non mi vedrà nessuno!

Oh ma…che cosa succede? Tum tum tum, che cosa piove dal cielo? Come faccio a guardare, se apro gli occhi mi vedranno…oi oi, aia!!! Coraggio, apro un solo un occhio…ullalà ma questo è un cucciolo di essere umano! Però non è come tutti gli altri: è grassoccio, rotondo come una palla – Palla? Io sono Pall one! – e con quelle vetrinette sembra che abbia quattro occhi, due dei quali sono azzurri come il cielo e guardano contemporaneamente il suo becco pieno di quadratini di ferro. Certo che questi umani sono proprio strani: non hanno il becco a punta!

Oi oi, ma…crù crùùù! C’est mervelleux! E’ meraviglioso: piovono bricioline! Il piccolo Palla mi butta le sue bricioline e la mia bisaccia ora è di nuovo piena crù crùùù, crù crùùù!

Il treno del mio nuovo amico sta partendo: adieu, addio! Addio Pallina, quando tornerai il tuo amico Paleolone Pallone sarà qui per te crù crùùù! Prendo una bella rincorsa e voilà, roteando in alto seguo il treno per salutare Palla fino all’ultimo!

Che faticaccia oggi, è più facile fare il netturbino volando, però se non fossi sceso a terra non avrei incontrato Palla… Oh chi ci capisce qualcosa in regalo la mia bisaccia piena di bricioline: les jeux ne sont jamais faites, i giochi non sono mai fatti: è la vita crù crùùù!

Paleolone Pallone ora vola alto tra le nuvole, sa che domani farà il doppio della fatica perché dovrà correre in scivolata per tutta la stazione… sssst pas de crù crùùù, alcun crù crùùù! Oggi però si sente leggero e il suo cuore batte per il suo nuovo amico Palla crù crùùù!

Dic 11

The Rice Cooker

IMG_1427Di fronte al tuo bambino, anche se sei Angela Merkel, l’autostima e la fiducia possono vacillare e spesso anche…io sono stata messa a durissima prova durante lo svezzamento. Non cucino, non mi piace, e, nonostante i miei sforzi, è un’attività che mi riesce male, cosa che cozza contro il manuale “Da 0 a 6 anni, una crescita per la famiglia”. La difficoltà non sta nel preparare il brodo vegetale, cuocere al vapore, passare le verdure e sciogliere la crema di riso ma nel faretuttoinsieme, o almeno in una sequenza lineare. In Italia, la mia cucina non poteva sopportare tanto: non c’era spazio per due pentole, due scolini, l’asse per tagliare le verdure, la scodella per la crema di riso e cucchiai e coltelli – non avendo mai cucinato tendo a perdermi in un bicchiere d’acqua mezzo pieno al primo step! –IMG_1428

L’esperienza fa la differenza, ma io non ne avevo e non davo segni di miglioramento. E gran parte della mattina volava via per 400 gr di pappa con tutto ancora da riordinare. Risultato: autostima sotto i piedi e stress. In Thailandia ho risolto definitivamente la questione con la rice cooker. E’ una pentola elettrica, molto utilizzata in Asia per cuocere il riso, alimento fondamentale presente ad ogni pasto della giornata (e per ogni pasto intendo anche la colazione!!). In pratica: nella pentola metto acqua e verdure per il brodo, copro con una specie di padella con i buchi dove si preparano le verdure al vapore e posiziono il coperchio. La rice cooker è fatta di due strati comodi e pratici. Tempo d’impiego: un’ora. Una volta che brodo e verdure sono pronti la rice cooker tiene tutto in caldo. Risultato: mi sento            qualcuno in cucina…Rice cooker forever!

 

 

Nov 08

I no che fanno crescere: ma come si fa?

  • “Mio figlio non capisce quando gli dico no. Ma tu che sei psicologa come fai?”

  • “…”

  • “Quando una cosa non si può fare non si fa, o no?”

  • “Ti andrebbe un caffè?”

Quando mi confronto tra mamme e mi vengono fatte delle domande dirette, tendo a spostare la conversazione, poiché il mio lavoro o i miei studi non fanno di me una mamma più acuta rispetto alle altre. Inoltre, un buon caffè è un buon caffè, e non si discute…

A proposito dei “no”, facciamo un esercizio, mettiamoci nei panni dei nostri bambini, liberiamo la mente e:

  • “ NON pensiamo a un cane rosa!

  • Ho detto di non pensare a un cane rosa NO, NO e poi NO, non si fa e se dico di NO è NO, chiaro?

  • Insomma basta, ho detto di non pensare a un cane rosa, che cosa succede?”.

Succede che abbiamo pensato a un cane rosa. Abbiamo fatto la stessa cosa che fanno i nostri figli tutte le volte che diciamo loro di non fare una cosa. In realtà, non “abbiamo disobbedito”, anzi, siamo in perfetta sintonia con l’attività del nostro cervello che, peraltro, funziona benissimo. Quello che emerge da questo esercizio è quello che c’è da sapere: il nostro cervello non capisce il no, è organizzato in modo tale che non comprende la negazione. Noi adulti siamo più veloci, capiamo quando non dobbiamo mangiare un cibo, bere una bevanda, stare alla larga da un pericolo o rispettare un divieto in quanto abbiamo esperienza, ne abbiamo memoria, abbiamo imparato a conoscere e, col passare del tempo, siamo diventati sempre più consapevoli di ciò che accade attorno a noi. Quando, ad esempio, diciamo ad un bambino “non ti muovere”, il suo cervello registra “muoviti” e “non”, ovvero due diversi messaggi che si contraddicono l’un l’altro. In altre parole, capisce “muoviti”. In più, spesso, molte situazioni sono ad alto impatto emotivo: il pericolo che il bambino si faccia male è reale, la preoccupazione genera tensione, ci arrabbiamo e alziamo la voce. In questo modo, si crea una confusione ancora maggiore nella testa del bambino, il quale non è nella condizione di comprendere e di agire di conseguenza.

Tra gli otto e i dodici mesi i bambini pronunciano le prime parole, ma già da qualche tempo utilizzano tutti i cinque sensi per imparare. Lo sviluppo del linguaggio inizia presto ed è graduale: comprende parole, gesti, significati, é un’impresa appassionante ma non sempre facile. Un bambino che vuole fare da solo, che trasgredisce, che “si impunta e non molla” è un bambino vivace e sano (a meno che non vi siano diagnosi di disturbo cognitivo o di personalità). La questione è dunque spinosa: come trasmettere regole e divieti che vengano capiti e messi in atto poiché “no” e “non si fa” non funzionano (almeno non funzionano sempre!)? Sembra infatti che i “no che fanno crescere” portino a ben pochi risultati, mentre abbiano effetti migliori esperienze “positive” del divieto.

Secondo gli esperti dell’età evolutiva, perché un’esperienza sia positiva e produttiva per un bambino – a noi interessa che nostro figlio/figlia non faccia una determinata cosa!- è essenziale: scandire bene le parole perché capisca; comunicare con tono pacifico per non creare tensione; guardarlo negli occhi per avere la sua attenzione. Ad esempio, pensiamo a quando impariamo una lingua straniera, un programma del computer o quando acquistiamo un cellulare e dobbiamo capire come funziona: abbiamo bisogno di istruzioni chiare e un ambiente tranquillo per concentrarci e imparare delle cose. Far capire a un bambino – soprattutto se ha tra i dodici mesi e i tre o quattro anni- che una cosa non si deve fare, è un’impresa difficile, e casa nostra, il parco o il centro commerciale spesso diventano una palestra di lotta libera!

Io mi arrangio con un semplice gioco, che richiede un pizzico di creatività da parte mia e che con mia figlia, che ha un anno e mezzo, il più delle volte funziona. Quando fa qualcosa che non può, se le condizioni me lo permettono, mi esercito a fare del divieto “un’esperienza positiva”. In pratica, proibisco, vieto, do delle regole ma senza utilizzare le parole “no” e “non” – ricordo che da piccola facevo un gioco analogo in cui chi rispondeva sì, no, bianco e nero perdeva! In pratica: quando vuole prendere in mano il coltello dico: “ questo lo puoi utilizzare a nove anni”. Idem col caffè, il cacciavite o qualsiasi cosa dimentico per casa; quando vuole camminare in mezzo alla strada: “solo le macchine possono passare di qua, le persone e i bambini stanno sul marciapiede”; quando vuole toccare un gattino che non conosciamo o un bambino nella culla: “ fai una carezza piano, con molta dolcezza”; quando vuole mettersi la mia crema: “ questa è della mamma e questa è di Lanna!”. A volte mi limito a descrivere la cosa che vuole toccare: “ la presa della luce ha i buchi troppo piccoli per le tue ditina”; “ la cariola è pesante”; “ la pappa scotta ancora”. Non é sempre facile, spesso mi escono delle frasi davvero assurde! Una volta, dopo una giornata di lavoro, fuori dal supermercato, carica di borse, la pioggia e con la mia bimba che non ne voleva sapere di entrare in macchina ho detto: “Lanna si bagna i capelli”, ancora non capisco il motivo, ma queste parole, pur lasciandola incredula, hanno dato i loro frutti ed è entrata in macchina.

Credo che funzioni la voglia di comunicare con la mia bambina secondo un linguaggio semplice e chiaro e la mia volontà di farle riconoscere i pericoli, in modo che possa muoversi in libertà nello spazio utilizzando le cose che incontra nel suo percorso di crescita.

Quindi, unica regola del gioco: non utilizzare “no” e “non” … anzi entriamo nel gioco da subito: utilizziamo tutte le parole tranne le impronunciabili … che il nostro cervello é in grado di capire solo ad un certo punto dell’esistenza.

Set 06

La fascia tuttalavita: parte I

 

imageLa prima volta che ho portato Lanna nella fascia sembrava di avere un pulcino sdraiato sul petto: la sentivo rilassata e completamente abbandonata, ma, allo stesso tempo, al sicuro, perché ben sostenuta dall’imbragatura. La cosa più difficile è mettere la bimba nella fascia, ma si tratta di una difficoltà psicologica come quando si ha a che fare con un qualsiasi cambiamento… E’ molto lunga, ed è un aspetto che spaventa. La prima volta – ma anche la seconda e la terza! – pensi: e adesso? All’inizio mio marito mi dava una mano, mentre oggi con un po’ di pratica annodo la fascia da sola senza alcun aiuto. I primi sette mesi di vita della mia bimba sono stata in Italia e dove abitavo, in Provincia di Mantova, nessuno porta i bambini nella fascia e al parco o lungo la ciclabile incontravo carrozzine e passeggini.

imageMi guardavano con stupore e un po’ di sorpresa e talvolta alcune vecchiette si lasciavano andare a commenti quali “ma non è scomoda? “AVRA’ UN CALDO!!!” e il mio preferito “poverina… guarda dove l’ha messa!”. Il commento sul caldo però alla fine mi ha condizionato – eh le mamme “dapocotempomamme” si lasciano sempre circuire mentre dovrebbero avere più fiducia in se stesse! – e durante l’estate ho riposto la Didymos e ho comprato la Mei Tai in uno dei negozi più innovativi per bambini di Mantova, Pisoli e Pannoli. E’ un prodotto italiano e conserva quei requisiti essenziali di manifattura e qualità dei materiali. L’ho utilizzata sempre: abbiamo visitato Roma, i ghiacciai in alta montagna, abbiamo fatto shopping a Milano e lunghe passeggiate al mare.

imageHo preso ogni sorta di mezzo: l’autobus, il treno, l’aereo, la metro, la barca, la funivia e la mia bimba poteva dormire pacifica anche in mezzo alla confusione! La Mei Tai è molto più semplice da indossare ma quando Lanna ha superato i 5 kg sono tornata a utilizzare la Didymos: la speciale struttura sostiene la schiena in modo tale che non si avverte dolore, anche dopo un’intera giornata in giro e nonostante l’aumento di peso (con la Didymos si può portare un bambino sino a 15 kg di peso!) .
Considero la fascia uno strumento che mi permette di portare Lanna in un modo che è nelle mie corde. Le mani libere sono un toccasana per lo spirito: faccio la spesa, shopping e colazione al bar. E’ vero che se il bambino capisce che si trova nell’imbragatura cosicché la mamma possa fare dell’altro, come finire le pulizie ad esempio, può rifiutare di starci. I bambini sono molto sensibili, capiscono subito come stare dentro la relazione e se sono al di fuori della nostra attenzione e cura – soprattutto se l’obiettivo è passare del tempo insieme! – non aspettano un minuto per farcelo notare! Non credo a chi dice “con la fascia crei un legame esclusivo e poi la bimba vuole stare solo in braccio alla mamma”. Penso che la fascia sia uno strumento che, oltre a essere molto pratico, consolida e arricchisce la relazione mamma-bambino.

imageLe prime settimane, i bambini sono molto piccoli, hanno bisogno di sicurezza e vicinanza poiché hanno molta paura e si spaventano facilmente. Pediatri e ostetriche infatti consigliano di stare loro vicino, abbracciarli e cullarli. La fascia permette loro di adattarsi all’ambiente in modo graduale, con un orecchio rivolto al cuore della mamma e l’altro al mondo esterno. I bambini nella fascia si tranquillizzano e questo senso di tranquillità viene interiorizzato e portato dentro di sé. In questo modo si consolidano le basi per l’autostima e la sicurezza di sé, fondamentali per lo sviluppo cognitivo e della personalità. Quando Lanna capisce che è il momento di entrare nella fascia sbatte le gambette veloce, felice mi stringe le braccia al collo e non si muove finché non è stretta nell’imbragatura. Ha capito che con la mamma o il papà sta per andare da qualche parte e che le capiterà di vedere qualcosa di meraviglioso: il Colosseo, il Duomo di Milano, il mare, i ghiacciai e le cascate in alta montagna, ma anche gente nuova da osservare.

Ago 13

Omaggio a Robin Williams – 11 Agosto 2014

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–          Perché sono salito quassù? Chi indovina?
–          Per sentirsi alto!
–          No! Grazie per aver partecipato… Sono salito quassù, sulla cattedra, per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! E’ proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarle da un’altra prospettiva. Anche se può sembrarvi sciocco o assurdo ci dovete provare. Ecco: quando leggete non considerate soltanto l’autore, considerate quello che voi pensate. Figlioli, dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi comincerete a farlo, più grosso il rischio di non trovarla affatto. Thoreau dice “molti uomini hanno vite di quieta disperazione”, non vi rassegnate a questo. Ribellatevi. Non soffocate nella pigrizia mentale, guardatevi intorno. Osate cambiare, cercate nuove strade.

L’attimo fuggente

 

Era il 1989, avevo 15 anni e l’entusiasmo di chi crede ciecamente alle parole del prof. Keating. Nel 1997, usciva Will Hunting – Genio ribelle, frequentavo il secondo anno di psicologia: decisi che avrei fatto lo stesso lavoro del Dr. Sean McGuire.

A 40 anni, le parole del famoso monologo pronunciato dal prof. Keating hanno un senso diverso, poiché dopo 25 anni, semplicemente, tutto ha un senso diverso. Egli incoraggiava gli studenti del tradizionalista collegio 673d5fc5b78ea2f1cdf13feeb05289e1maschile Welton a guardare le cose da una prospettiva diversa, a ribellarsi alla pigrizia mentale, a cercare nuove strade. Chiedeva ai suoi studenti di “sentire”, non di conoscere, per questo era un professore fuori dagli schemi.

Oggi, a scuola, chiediamo ai ragazzini di svolgere temi sulle loro esperienze più memorabili e di trarne una morale, mentre invece è proprio la vita sulla quale meno si riflette, la vita non sottoposta a digestione e che sentiamo ribollire in pancia che vale la pena di vivere: anzi, lo scopo della vita, negli anni giovanili, è viverla.

Abbiamo il preciso dovere di sostenere i nostri figli a vivere la loro vita considerando ciò che essi stessi pensano, sono, amano. E noi adulti, genitori, insegnanti, educatori, professori, quando crediamo di sapere qualcosa sui nostri ragazzi dobbiamo guardarli da un’altra prospettiva, anche se può sembrarci assurdo o sciocco ci dobbiamo provare.

Grazie capitano perché mi hai ispirato.

Grazie Robin Williams.

Ago 04

Il mito di Er

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Ne “Il codice dell’anima”, Hillman si ispira al mito di Er che Platone pone alla fine de La Repubblica, un’opera antichissima, scritta circa duemilaquattrocento anni fa. Il mito parla dell’anima, termine che non deve essere inteso in senso religioso. Infatti, essa riguarda un aspetto interiore dell’essere umano, che agisce in base a regole e bisogni molto diversi rispetto a quelli del corpo, ma che come il corpo ha necessità di nutrimento e cure. L’anima ha interessi, desideri, passioni che manifesta secondo logiche che non sono decifrabili a prima vista. Inoltre, Hillman ci fa notare un aspetto molto interessante, ovvero che il concetto di anima è presente in quasi tutte le culture sulla terra ed è considerato il nucleo della personalità (proprio perché è considerato il nucleo della personalità, viene da chiedersi perché noi occidentali lo abbiamo eliminato dai testi di psicologia e di psichiatria!).

La mitologia greca ha un ruolo importante nella nostra cultura. Come le scienze (in particolare la genetica delle popolazioni, la biologia, la paleontologia) ci insegnano che la prima cultura muove i suoi passi in Africa – eh sì siamo tutti africani, e dobbiamo mettercelo in testa! – e con la teoria dell’evoluzione Darwin ci svela che eravamo delle scimmie – questo sembra già più facile da accettare! – allo stesso modo la cultura e la tradizione hanno subito profonde trasformazioni. Da sempre, l’uomo migra, cambia habitat, si ingegna per sopravvivere alla natura e dove si insedia costruisce, trasforma, bonifica non solo in senso pratico ma anche culturale e sociale. Dunque, semplificando, oggi possiamo dire di essere un popolo italiano, francese o tedesco, ma un tempo eravamo un popolo latino, prima ancora greco, più in dietro nel tempo assiro e così via, sino a quando l’uomo era una scimmia e viveva in gruppo nel continente africano. In altri termini, l’evoluzione riguarda non soltanto il nostro pianeta e l’uomo ma anche la cultura e la tradizione. La mitologia greca appartiene al nostro passato culturale– siamo stati greci! – e, per quanto ne possiamo sapere oggi, l’idea di anima risale a circa duemilaquattrocento anni fa, grazie al filosofo greco Platone, che, nelle sue opere, si rifà ai miti greci. In base alla “genetica delle culture”, il concetto di anima ci appartiene di diritto, è soltanto che abbiamo smesso di occuparcene. Infatti: pensiamo mai all’anima di nostro figlio? Oltre alle cure fisiche – pappa, cacca, nanna – consideriamo la cura dell’anima? Cioè, come genitori, siamo disposti a interessarci al mondo interiore dei nostri figli? O diventa un aspetto da considerare soltanto quando manifestano delle difficoltà?

Il mito di Er spiega che prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un disegno di vita che poi vivremo sulla terra. L’anima sceglie il corpo, il luogo, i genitori, le situazioni di vita adatte all’anima stessa e corrispondenti alle sue necessità. Inoltre, l’anima riceve un compagno – daimon – che ci guiderà. Una volta venuti al mondo, dimentichiamo la nostra scelta. E’ Il daimon che ci ricorda i contenuti del nostro disegno di vita, è il daimon il portatore del nostro destino, o vocazione (termini da intendersi come sinonimi). Platone racconta questo mito affinché non dimentichiamo la nostra anima e le sue scelte.

Perché il nostro destino si compia, il daimon si mette all’opera sin dall’infanzia e non è possibile sbarrargli la strada. I problemi e le difficoltà dell’esistenza fanno parte del disegno di vita che ci siamo scelti, sono necessari e contribuiscono a realizzarlo. La vocazione può essere rimandata, negata, persa di vista, non importa: alla fine verrà fuori, perché il daimon non ci abbandona e ha il duro compito di aiutare l’anima a realizzare la sua vocazione. Sin dai tempi più antichi, filosofi e poeti hanno cercato un nome per indicare il destino o la vocazione. Per i latini era il genius, per i cristiani l’angelo custode, per gli eschimesi lo spirito, per gli egizi il Ka o Ba, per i greci il daimon.

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Il codice dell’anima ha per argomento il destino, la vocazione, il carattere: le cose che, insieme, danno sostanza a quella che Hilman chiama “teoria della ghianda”. La ghianda è il seme che diventerà una quercia enorme, e per Hillman diventa metafora fondamentale dell’esistenza: l’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una ghianda. Questa teoria spiega che ciascuno di noi è portatore di un’unicità che chiede di essere vissuta e la voce che chiama è forte e insistente quanto le voci repressive dell’ambiente (ovvero la famiglia, la scuola, il gruppo di amici).

Dunque, che cosa potrà mai trovare di tanto interessante una mamma che tutti i giorni ha duecento milioni di cosa da fare ne Il codice dell’anima? Moltissimo, perché inizierà a riflettere sull’anima del proprio bambino, sulla sua unicità e a pensare che non è venuto al mondo da solo, bensì con un angelo custode, o daimon.

 

 

Lug 08

In spiaggia

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Questa mattina in spiaggia, riflettevo su un paradosso che riguarda molte mamme. La questione è: per quale motivo teniamo i bambini senza costume da bagno lasciandoli liberi, come si dice, e non abbiamo la libertà di chiamare i genitali col loro nome, ovvero pene e vagina? Chiamiamo tutte le parti del corpo col loro nome: il gomito è il gomito e non il coccodrillino; il ginocchio è il ginocchio e non il pallino! Chiamiamo invece la vagina passerina, farfallina, cosina, chitarrina, ciccina, ecc; il pene pisellino, pipino, pistolino, ecc. Mentre al mare scopriamo i genitali dei nostri bambini, con questi nomignoli nascondiamo qualcosa. Che cosa?
Facciamo un piccolo esercizio. Mentre siamo sul fasciatoio per il cambio, osiamo dire a voce alta una semplice frase: adesso laviamo il pene o la vagina – nel caso di un maschietto o di una femminuccia. Subito dopo ascoltiamo che cosa si muove dentro di noi: si è chiuso lo stomaco? Ci sentiamo imbarazzate? Abbiamo addosso una sensazione di sporco? Se è così, ci siamo vergognate di aver chiamato il pene e la vagina col loro nome.
La vergogna è un’emozione di secondo grado, come si dice in psicologia, poiché non è istintiva come la paura – di primo grado – bensì trasmessa. Significa che ci hanno “trasmesso” quando e su che cosa provare vergogna. In questo caso, abbiamo chiamato per anni la vagina e il pene passerina e pisellino – così ci parlavano i nostri genitori, i nostri nonni. La vergogna è stata trasmessa attraverso questi vezzeggiativi che in realtà altro non fanno che ridicolizzare, ridurre, sminuire l’intimità del bambino e della bambina sino a farla in pezzi. Il pene e la vagina sono parti del corpo, come il gomito e il ginocchio, ma con l’educazione hanno assunto connotazioni “cattive”. E come tutto ciò che è cattivo, non si nomina, si deve nascondere. Ecco che allora nascondiamo una cultura che sa di vecchio e che ci è stata inculcata senza darci la possibilità di scegliere se appoggiarla oppure no.
Abbiamo il preciso compito di essere consapevoli dell’educazione che impartiamo ai nostri figli. In particolare, ritengo sia fondamentale aiutarli ad apprezzare il loro corpo senza sminuirlo o ridicolizzarlo, perché soltanto in questo modo in futuro i nostri bambini avranno maggiore probabilità di essere uomini e donne “tutto d’un pezzo”, sicuri di se stessi e della loro sessualità, rispettosi della propria intimità e di quella degli altri. Questo paradosso va ribaltato: in spiaggia nascondiamo i genitali dei bambini facendo indossare loro il costume da bagno, tutti i giorni chiamiamo in libertà il pene pene e la vagina vagina.
A mamme e papà consiglio una terapia d’urto che sarà di grande aiuto: la lettura de “I monologhi della vagina”.

Giu 01

Il Primo Viaggio in Thailandia con Lanna!

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Raggiungere Alee, mio marito, in Thailandia è stato più facile di quanto pensassi: mia figlia di otto mesi ha affrontato il viaggio con curiosità e dormendo la maggior parte del tempo. A sentire tutti non ce l’avremmo mai fatta ad affrontare“da sole” un viaggio di 14 ore dall’altra parte del mondo: la bimba riuscirà a prendere sonno? Che cosa fai se piange? E SE NON CI VUOLE STARE IN AEREO PER 12 ORE? In effetti, ero molto angosciata, poi però affrontando la cosa…

Le mamme che viaggiano con un bebé hanno diritto alla prima fila e le hostess hanno persino bloccato un posto a sedere di fianco al mio così che potessi muovermi in libertà. Oltre a uno zaino pieno di pannolini, tutine e body per il cambio, vasetti con la pappa e il mio computer, potevo contare sulla fascia e sul cuscino per allattare. Fascia e cuscino si sono rivelati fondamentali poiché hanno permesso a me e alla bambina di muoverci e di mantenere alcune abitudini. Grazie al cuscino ho allattato comodamente, mentre la fascia mi consentiva di cambiare posizione – stiracchiarmi, allungare le gambe –e di spostarmi con Lanna vicino, ad esempio quando andavo al bagno! Quelle preoccupazioni che non mi hanno fatto dormire per notti intere – 12 ore di volo, il buio pesto in aereo, la confusione in aeroporto di una città quale Bangkok, il cambio per Phuket – si sono rivelate per la mia bimba esperienze nuove da osservare tra un pisolino e l’altro. Credo che la paura di affrontare il viaggio in realtà nascondesse qualcosa d’altro…

Prima di partire mi sono trovata faccia a faccia con quel sentimento di solitudine che spesso vive una mamma in presenza del proprio bambino. Se da un lato tale sentimento è umano, allo stesso tempo credo sia carico di pregiudizi, ovvero giudizi, considerazioni, pensieri che provengono dall’ambiente sociale in cui vivo. Se analizzo la situazione capisco che la paura di affrontare questo lungo viaggio fosse legata a una decisione che usciva dal buon senso comune. In altre parole, stavo per fare una cosa che non avevo mai sentito fare a nessun’altra mamma. Mentre preparavo le valige per la Thailandia, avevo in testa un immaginario gruppo di mamme che diceva: i bambini devono avere delle routine, dormire nel loro lettino, rispettare gli orari e andare a letto quando è ora… potrei continuare a lungo!!! I discorsi di queste signore mi stavano paralizzando, poiché, non lo nego, lo status di mamma può spalancare un portone enorme su paure, insicurezze e senso di inadeguatezza nei confronti di tutto ciò che riguarda la maternità e le scelte di una mamma. Avevo deciso di partire, davanti a me si stava aprendo una strada che non sapevo dove ci avrebbe portato o forse lo sapevo benissimo, ma il punto è un altro! Io non credevo di essere in grado di affrontare con mia figlia un viaggio che avevo già fatto molte volte da sola. Paure e insicurezze alla fine non mi hanno prosciugata ma sono partite con me, soltanto in questo modo sono riuscita a ridimensionarle e a smentirmi. Mi sentivo diversa e spregiudicata rispetto a un “classico” modo di essere mamma, sebbene “la classica mamma” fosse solo un pensiero contaminato nella mia testa.

Sono convinta quando dico che il compito più difficile per una mamma sia quello di riorganizzare i pensieri per stabilire, in merito a qualsiasi decisione presa (sia essa legata all’alimentazione del proprio figlio o al trasferimento in un altro continente!) quali le appartengono e quali no, quali sono i suoi propri giudizi e pensieri profondi e quali invece sono contaminazioni che provengono dagli altri. Chiarito questo “le distanze si accorciano” e quel sentimento di solitudine che si avverte diventa sostenibile. Ho capito che stavo vivendo paure trasmesse dal buon senso comune e le trasferivo sulla bambina. Tale consapevolezza mi ha permesso di partire per il mio viaggio avendo più fiducia nelle capacità di adattamento della mia bambina e, spero, nel mio modo di essere la mamma.

Mag 26

Il Codice dell’Anima

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Mi capita spesso che mamme in difficoltà col proprio bambino mi chiedano un consiglio su che cosa leggere. Grazie al mio lavoro – di educatrice e di psicologa – ho capito che la paura più grande di una mamma è quella di sbagliare. L’alimentazione, il sonno, il gioco, le relazioni con gli altri bambini, e ancora la scelta di prolungare l’allattamento, la decisione di iscrivere il figlio al nido – la lista non finisce di certo qua – sono tutti ambiti in cui la mamma, a livello più o meno consapevole, sente di avere paura di non fare del suo meglio e di far soffrire il proprio bambino. Succede allora che se ne parli tra mamme, che si interpellino specialisti o che si vada alla ricerca di un libro che illustri un metodo che funzioni. Consigli e tecniche però, una volta messi in pratica, rivelano i loro limiti e sembrano insufficienti ad assolvere il loro compito. Il bambino continua a non dormire, a non mangiare, a non ascoltare, a opporsi e qui, preciso come un bisturi dal taglio sottile, si insinua il dubbio: “dove sbaglio?”, e poi “come posso fare?”.

Ho scelto un libro alquanto insolito per una mamma, poiché esce dagli schemi della psicologia dell’età evolutiva e della pedagogia comunemente conosciuti. James Hillman (psicologo analitico, discepolo di Jung) nel libro “Il codice dell’anima” affronta un tema fondamentale: l’esistenza. L’argomento è complesso, soprattutto se pensiamo che poeti e filosofi se ne occupano da millenni! La mia sfida consiste nell’aprire una porta nell’immaginario materno che si discosti dal buon senso comune e che ci aiuti a porre domande diverse da quelle che quotidianamente ci facciamo. Le mamme quando si rivolgono a me hanno uno di questi problemi o più di uno insieme: “mio figlio non mangia, non cammina ancora, chiede il seno di continuo, non sta fermo, è disattento, è timido, non gioca con gli altri bambini”. A quel punto mi chiedono: “che cosa devo fare? Come posso aiutarlo? Sbloccarlo? Sostenerlo? Ci starà male? Soffrirà? Gli provoco un trauma?”.

Ne “Il codice dell’anima” l’autore sceglie una strada inesplorata che ci porta a considerare il punto di vista del bambino. L’argomento non è dei più semplici, poiché parla del destino e della vocazione dei nostri figli, termini che non si trovano nei testi di psicologia e che non usciranno mai dalla bocca del nostro pediatra. Allora perché occuparcene? Hillman sostiene che “appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco” – Immaginazione? Romanticismo? Ma che cosa c’entrano con la pappa e la nanna! -. A sostegno di questi argomenti ci sono grandi idee filosofiche come la bellezza, il mistero, il mito che sono una cura per l’anima e vanno dritte a lenire la nostra paura di sbagliare e di procurare un trauma al nostro bambino. Hillman ci invita a stare dalla parte dei bambini affermando che anch’essi, già da molto piccoli, hanno in testa che cosa fare della propria esistenza, che hanno una vocazione da esprimere.

Avevo regalato il libro a un’amica, la quale mi disse che lo trovava troppo impegnativo – in effetti non si tratta di un’opera da leggere alla luce dell’abat-jour quando, dopo una giornata di lavoro, abbiamo messo i bambini a letto! – pertanto ho deciso di analizzare i temi de “Il codice dell’anima” al fine da renderli fruibili anche a chi non mastica di filosofia e psicologia analitica.

Da educatrice da vent’anni e da mamma da qualche mese, sono arrivata alla conclusione che abbiamo il difficile compito di pensare i nostri figli proiettati nel futuro, poiché i bambini da subito iniziano ad andare in contro al loro destino e la loro vocazione si rivela, in modo più o meno chiaro, già durante primi anni di vita: diventerà uno sportivo? Un ricercatore? Un genitore premuroso? Parlerà molte lingue? Fonderà un’attività sua? Si dedicherà agli altri? Andrà a vivere in un Paese diverso da quello d’origine?.

Come direbbe Hillman dobbiamo immaginare la loro esistenza “con un pizzico di romanticismo”. Soltanto questo ci permetterà di pensare ai nostri figli come persone uniche e irripetibili, dandoci la sensazione che il mondo stesso vuole che essi siano al mondo, che non è un desiderio soltanto di mamma e papà. Il codice dell’anima non dà risposte pratiche, non svela il metodo giusto per risolvere i problemi quotidiani ma ci toccherà nel profondo, e toccherà l’idea che abbiamo dei nostri figli. Il libro è un atto d’amore indiscusso da parte dell’autore nei confronti del genere umano e credo che la sua lettura sia un atto di benevolenza e generosità da parte di un genitore nei confronti del proprio figlio.

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